Tre X Dieci
di Maurizio Scudiero
Fa parte di quella giovane generazione di pittori che, un po' dappertutto in Italia, affrontano le problematiche del “fare arte” con grande serietà, con il supporto del “metodo”, vale a dire di lunghi studi, ma soprattutto con una grande determinazione che si fonda su questo corposo background culturale che si affianca alla cosiddetta “ispirazione” che da sola, ormai, non basta più. Rientra, inoltre, in quella fetta sempre maggiore di giovani artisti che pur essendo cresciuti nell'epoca di Internet, della digitalizzazione delle immagini, e nell'insistito bombardamento mediatico da parte di talune istituzioni (come la Biennale di Venezia o Documenta di Kassel, solo per citarne due) che ormai da molti anni hanno cercato di istituzionalizzare un'arte anti-storica (ed a volte anche anti - italiana), cioè priva di un qualsiasi substrato culturale, e piuttosto asservita ad un concettualismo sfrenato in stretta relazione con il mercato, ebbene questi giovani artisti hanno comunque optato per la pittura-pittura. Sarebbe stato molto più semplice dedicarsi agli accrochage di vasellame alla Schnabel, oppure ai reperti biologici in formaldeide alla Hirsch, o, ancora, a performance nei bagni turchi con gli anziani, o infine, ad improbabili monumenti alle famiglie distrutte dallo stress da consumismo.
Qualche tempo fa, su di un giornale nazionale, un disilluso studente d'Accademia del primo anno si chiedeva se fare arte “fosse tutto lì”: cioè una gara a chi aveva l'idea migliore, a chi si lanciava nella boutade più becera tanto da guadagnarsi spazio sulle cronache scandalistiche. Sì perché sembra che molti artisti (e con essi molti critici cresciuti sulle pagine di Flash Art ma con un background storico minimal ) credano proprio che il superare i limiti della decenza artistica o sociale possa divenire un fattore qualificante nell'ambito di un progetto che vede (o crede) essere l'arte un “fastidioso pungolo” per scuotere le coscienze. Se è per quello, basta guardare i vari Tg che quasi quotidianamente ci scodellano il peggio che il mondo possa offrire (proprio perché il “meglio” non fa notizia), per capire come la finzione (dell'arte) sia sempre superata dalla “fantasia” (della realtà). E dunque, come storicamente è sempre accaduto in situazioni simili, da qualche anno sta montando anche in ambito artistico un'onda di reaktion , di voglia di lasciarsi alle spalle i rifiuti per riprendersi in mano le “ragioni prime ed ultime della prassi creativa”. Ed è proprio in quest'ottica che sempre più giovani artisti s'immergono nella pittura-pittura, si sporcano le mani con il colore (Mark Konstaby si vantava tempo fa di non toccare un pennello da moltissimi anni), e si riappropriano della “fisicità” della tela, che può essere vero che va superata, ma prima ci si deve immergere a lungo.
Ed è proprio questa passione, questo trasporto vitalistico, che io trovo nei lavori di Annamaria Targher, che è riuscita a coniugare il “gesto” pittorico con l'attitudine cromatica. Lavora su grandi dimensioni e non è mai avara di materia. Ciò nonostante le sue opere hanno un'insospettata “leggerezza” che le proviene dall'aver saputo via via contenere e poi incanalare una sua qualità, istintiva, che è basilare nel suo porsi con la tela bianca. Mi riferisco a quel suo fraseggio di segni che tipico degli “automatismi” dei post-surrealisti . Sto pensando ad un Matta, che riusciva a coagulare questi suoi segni in forme che assumevano valenze di “organismi biomorfi”. Ma certo nel lavoro della Targher siamo ad un livello di minor riconoscibilità, sebbene qualche tempo fa Marica Rossi di lei scrivesse che «nel coacervo delle linee e dei gorghi tumultuosi allusivi di un'unità verso cui far convergere la molteplicità di inquietanti presenze, traluce a volte la figura femminile, ancorché frammentata o sinteticamente rappresentata», ma certo si riferiva ad altri lavori.
Qui, invece, nelle opere in mostra se mai si possa ravvisare una qualche “presenza mimetica”, essa è comunque avvolta nel dinamico incalzare di una gestualità che non è mai disordinata, ma assume ritmi e direzionalità che sono strutturali ai rapporti di vuoto e pieno della composizione. Esemplari di questo assunto sono, ad esempio, Per una Domus migliore, Mano contro Mani e Cavallette, mentre invece nelle altre opere la gestualità sembra invece più condizionata anche ai rapporti cromatici, e pur tuttavia sortendo comunque, anche qui, quei fraseggi dinamici che non rendono mai i suoi lavori una fredda questione d'impaginazione, di gabbia e orditura. E del resto l'automatismo gestuale non ammette dei progetti chiusi, o, peggio, delle linee prefissate, e proprio in questo risiede la sua valenza energetica, cioè di pittura “liberata”, cioè di pittura che “strappa in avanti”, che tende a superare il limite del “troppo pieno”, e proprio per questo va incanalata: cosa che alla Targher riesce benissimo.
Maurizio Scudiero, Tre x Dieci, 2007
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